RENDETE… A
CESARE QUELLO CHE É DI CESARE! (LC 20,25)
di Paolo
Borgia
Abstract. It’s a serene
meditation about seeking the meaning of being human, keeping in mind the
comprehensive “arbëresh” (italo-albanian) viewpoint. It analyzes briefly
but profondly the constituent of the trascendent body of humanity: brain,
heart, liver, entrails as a possible “prolegomena” of one’s mother tongue
or language.
Përmbledje. Bëhet një
meditim të kthjellët për të kërkuar kuptimin e njeriut, tuke pasur
parasysh prospektivën sinoptike arbëreshe. Hulumtohen shkurt e dendur
pjesët përbërese e kurmit transhendent të “burrit”: trutë, zëmra, mëlçia,
zorrët si i mundshëm “prolegomenë” i gluhës së vet ëmtare ose i të folurit.
Di “cesari” ci dicono che non
ce ne sono più… perlomeno nei paesi civili! In altre parole, oggi, Cesare
se c’é, é costretto a mimetizzarsi. Perché una volta che é stato “ucciso”,
non può più legittimamente risuscitare. Così l’uomo è finalmente uscito
dallo stato di coatta “minorità”.
Non riconoscere più Cesare
significa essere padroni di adoperare il proprio capo (posto quattro dita
sopra le spalle) nelle proprie scelte razionali e sentimentali senza
affidarsi alla tutela di altri. Non é certo facile uscire dalla minorità,
perché occorrono decisione e coraggio per cercare la propria verità e il
proprio bene. Per questo motivo molti finiscono per restare prigionieri di
una seconda pelle: ci tengono a mostrarsi adulti qualificati, “burra”,
sapendo di vivere senza fiducia nella vita e nella società e con disagio
una esistenza impotente e contraddittoria rispetto al ruolo storico di cui
pur sentono la profonda vocazione (nichilismo dell’ultima spiaggia) e
talvolta si lasciano andare in balia degli istinti, nel tormento di una
coscienza senza misericordia (violenza esplosiva di un Sovrastante-Io
implacabile). I più, p.es. gli Arbresci, per fortuna, conoscono il proprio
valore, la propria dignità, la propria unicità come persona; percepiscono
il proprio Io, il proprio essere, la parte più profonda di sé, dove
risiede la sicurezza di fare qualsiasi cosa e il coraggio di accettare i
propri sentimenti, anche quelli negativi.
Fu questa autostima a guidare
la rivoluzionaria volontà democratica dei Padri fondatori (illuministi)
degli Stati Uniti d’America nella formulazione (e nella scelta della
lingua da adoperare) di quel contratto solenne, che é la Costituzione,
fatto in nome di “Noi il popolo”. Un accordo che deve essere rinnovato da
ogni generazione, coniugando libertà e sicurezza (J.F. Kennedy 1959) e che
M.L.King vincolava alla “guerra civile” contro la povertà.
A parlare sono i “popoli” e non
gli “stati”! I primi sono il soggetto mentre i secondi (e le loro
promanazioni istituzionali ma anche le corporazioni che costellano la
realtà sociale, economica, politica e religiosa: vedi A. Lo Presti, La
teoria dell’élites, Roma 2003) sono solo lo strumento, che troppo spesso
si cura anzitutto di autoconservarsi in un frequente sterile e vuoto
esistere autoreferenziale.
(Gli Arbresci sono un popolo?)
Nella Dichiarazione di
indipendenza del 4 luglio 1776, uno dei capisaldi politici nella storia
dell’umanità, un popolo ha in sé l’autorità per riconoscersi tale, se
vuole. E’ la volontà di essere un popolo, che fa un popolo.
(Gli Arbresci hanno questa
volontà?)
L’Europa questa stima in se
stessa ancora non sembra averla, così com’é non può averla, anzi, ha
proprio un’autoindeterminatezza “bizantina”!
Come può sussistere, allora,
con i suoi 480 000 000 di abitanti divisi in 25 stati sovrani, con 110
lingue di cui una minoranza di 120 000 000 di persone ne parla 85 (lingue
di minoranza)?
E di queste, quante sono
minoranze frutto di pendolari confini mal posti e quante sono minorità,
frutto di vessazioni storiche secolari, che hanno determinato anche la
perdita nella “fede pubblica” (A. Genovese), senza la quale non può
sussistere un vero cemento sociale?
Sarà l’Europa capace di
sviluppare queste risorse umane, vero “capitale civile locale che più si
utilizza e più aumenta” (S. Ciaccio 2004) dentro la società comunitaria?
A quale fonte, poi, si ispirerà
l’Europa per dare risposta politica alle “domande di senso”, che
caratterizzano l’uomo, per cogliere l’unità complessiva della verità
all’interno dei saperi aperti e complementari e per contribuire alla
autocomprensione del soggetto, l’uomo, e delle sue scelte esistenziali, se
esclude l’altra volontà che i Padri fondatori degli USA hanno attribuito a
Dio per aver predisposto gli eventi e perciò reso possibile la nascita
della nuova entità?
Perché in questo sta l’idea
caratteristica che da più di tre secoli anima gli Usa, nonostante che il
nome “Dio”, lì, é dato a più di quaranta Dio diversi (mentre p.es. in
Russia il suo nome, sopravvissuto a 70 anni di persecuzione, é la “Santa
Sofia”.Vedi T. Špidlík, L’idea Russa, Roma 1995, pagg.351-376 a riguardo
di P.Florenskij e V.Soloviev, ndr). Ed é grazie al nome di Dio che il sig.
Bush (e grazie a K. Rove suo stratega della vittoria: per il metodo vedi
anche P. Borgia, Conoscenza, paura e potere in Katundi Ynë n.110-2003/1
pag.6-7) si é fatto rieleggere presidente di una società oggi
profondamente divisa. In un tempo di incertezze planetarie é stato facile
mobilitare ed organizzare il consenso intorno ai valori identitari della
“minorità culturale silenziosa” che rappresenta la estesa America non
metropolitana, mentre c’é chi sostiene che la vera causa della odierna
violenza sia essenzialmente intellettuale e culturale (W.Laqueur, del
Centro di Studi Internazionali e Strategici).
In sostanza, l’avvenuta
globalizzazione con la sua mostruosa pandemica migrazione di popoli e i
suoi mezzi-media elettronici ha prodotto effetti culturali devastanti ma
anche una insistente e disattesa domanda di un umanesimo integrale e
solidale, fondato sulla dignità e sulla libertà di ogni persona umana con
la sua sfera sessual-riproduttiva (cioè spirituale!) culturalmente
radicata nel proprio gruppo di appartenenza (identità) e con quella
economico-produttiva (cioè materiale!) storicamente in perenne divenire
(progresso, sviluppo) ma anche in un mondo dove essa, la persona, possa
esprimere le sue potenzialità in un clima di serenità, in cui possa
risolvere i propri problemi senza paternalistiche soluzioni altrui e
soprattutto dove possa essere in grado di esprimere (riconoscere,
controllare ed attuare) le proprie emozioni, dove possa sviluppare una
certa sensibilità per le emozioni altrui e sapersi destreggiare agilmente
(senza ingessature conformistiche) nei rapporti umani (Balentia, Album
“Nos’e totu”, Nu*ragia Recordz, Mogoro - Oristano 2004).
Eppure nonostante il sapere non
divulgato (F. Faa di Bruno: la scienza realizza un vero progresso solo
quando la sua verità diventa accessibile al maggior numero di persone; G.
Longo: la conoscenza non é cultura se non coinvolge la parte più vitale e
profonda dell’essere umano), la medicina dal prezzo usuraio (A. Ricci,
Striscia la notizia – “La voce dell’indipendenza”), il guinzaglio
tecnologico, i tamburi di guerra e l’apparente morte di Dio, il mondo
risorge.
C’é “una sorta di appello quasi
biologico a ritrovare ciò che costituisce un legame tra gli uomini”, anche
perché “quando Dio non c’é più si trovano dei sostituti estremamente
pericolosi”. Questo é il parere del mediologo ateo francese R. Debray. Dio
non é morto, semplicemente si é evoluto per essere competitivo con il
progresso umano: Dio di Gilgamesh, Dio padrone in cielo e re in terra, Dio
degli eserciti, Dio nazionale, Dio del Libro (e che perciò permane
superando la scomparsa di un popolo). E non finisce qui: sempre secondo il
noto accademico francese - con un passato di militanza marxista, amico di
Fidel Castro (che da parte sua ha ricordato che la cultura occidentale é
cristiana per origine poiché in Europa é impossibile nascere a-cristiani),
in Cile con Che Guevara e consigliere, poi, di Mitterrand per l’America
Latina - non é finita nemmeno la funzione della Chiesa. Perché dove non
c’é istituzione, non può esistere tradizione e quindi trasmissione: cioè
occorre sia il messaggio che la sua continuità.
Da parte mia posso solo notare
che Dio non ha bisogno di evolversi; siamo noi che, riconoscendo il Suo
essere, sappiamo che la nostra finitezza restituisce dignità prima al Suo
essere onnipresente e poi al nostro essere cosciente e consapevole (non
del Suo essere) ma della Creazione: vera (Gv 14,6), naturale (Gen 1,1-31),
sovversiva (Mt 10,34-39), autentica (Gv 1,3), unica (Ef 4,1-6),
globalizzata (1Tm 2,4 e 4,10) e cosmopolita (Col 3,11). Un Dio “che si
prende cura”, é “coinvolto” e “si preoccupa” (H. Jonas, Il concetto di Dio
dopo Auschwitz, Genova 1998, pag.30) ma “non é un mago”, slot machine, che
fa magie per l’uomo, lasciato libero-padrone, ormai onnipotente, di far il
male e il bene a se stesso e al suo contesto prossimo e planetario.
Il mondo è azione: l’azione è
metafisica e produce il mondo metafisico, l’azione è fisica e crea il
mondo fisico. L’uomo è creato nel mondo e perciò è agente fisico e
metafisico; con l’azione metafisica l’uomo costituisce la determinazione
di se stesso, con l’azione fisica l’uomo manifesta la sua proposizione al
mondo. Le due azioni aprono l’uomo oltre la propria finitezza.
In ogni tempo e in ogni luogo,
attraverso l’azione, l’uomo manifesta il suo senso del sacro in relazione
alla sua visione iconica del mondo a cui è consapevole di appartenere.
L’uomo primordiale è affascinato e nel contempo impaurito da ciò che gli
accade, dentro e intorno, e che giustifica con entità favorevoli o ostili;
la contraddizione tra appartenenza e dominio del mondo genera il fiorire
di pratiche cultuali e successivamente contesti religiosi impositivi di
regole limitative per propiziare entità che pensa demoni.
Più di recente si convince che
tutto dipende da un unico ente, lo stesso che con la sua azione ha
costituito e costruito il mondo. Il rapporto dell’uomo con questo Dio è
improntato ad un subalterno timore che lo vincola ad un cammino segnato
dall’obbligazione. La venuta del Redentore libera l’uomo attraverso
l’amore di Dio. Il cambiamento sta nell’intenzionalità per raggiungere il
Bene (unità, verità, bontà e bellezza).
Oggi, il cammino faticoso,
vincolato alla naturale ricerca di determinazione di sé e di proposizione
al mondo porta ad una necessità immediata di soddisfazione dei bisogni
rispetto alla lenta ricerca di realizzazione dei desideri costitutivi di
una propria identità. L’accoglimento della conoscenza della verità rende
liberi, indipendenti dai bisogni, e contigui apertamente alla buona
novella. E’ quindi necessario un nuovo approccio che preliminarmente
consente di ricostruire il tessuto naturale, premessa fondativa di colui
che è inteso come uomo di buona volontà.
13.12.2004
Paolo Borgia